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Ragazze che amiamo, Dacia Maraini, Sandra Giuliani.

2013/06/30 - Associazione, Attualità di: MG Colombo
Ragazze che amiamo, Dacia Maraini, Sandra Giuliani.

Con la sensibilità e l’impegno che la contraddistinguono sul campo dei diritti civili, Sandra Giuliani ha incontrato Dacia Maraini, con la quale si è confrontata sulla storia, sui valori del passato, sulla statica disperante attualità.

E, ça va sans dire,sulla potenza della lettura, primario strumento di evasione ed eversione

Nessuno dei temi affrontati è sfuggito all’emozione dell’ incontro con un Mito, in poetica sonora imperdibile testimonianza.

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28 giugno 2013, Caffè letterario “Pagine e Caffè” – via Gallia 37 (Roma)

“Lei è una donna puntuale. È già qui, seduta con le amiche al tavolino. Le settanta sedie del locale, disposte lungo il cortile-giardino, sono tutte occupate.
Le persone libro in prima fila. Io resto fuori, a fumare. Dopo l’incontro con Belotti questo è un altro appuntamento con la Storia e a dirla tutta sono emozionata perché Dacia io la conosco, l’ho vissuta attraverso un percorso lungo una giovinezza che se n’è andata: i miei i nostri anni settanta. Gli anni 80. Roma di allora.
Quando si accomoda sulla sedia, dietro al tavolino in fondo al cortile-giardino, la gente applaude. Così, solo perché è lì.
Anna Maria Corposanto ci presenta: lei, Dacia Maraini, noi: Donne di carta.

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L’incipit è delle parole-voci delle persone libro: sono 3, tre brani estratti dal tema sulla violenza delle donne. Le ultime parole appartengono al libro appena pubblicato, “L’amore rubato“: 8 racconti: “Parlane! Parlane a tua madre parlane a tua sorella. Ne va della tua dignità.”
Vorrei iniziare una conversazione intima, informale – preciso, partendo proprio da qui, dalla difficoltà da parte delle donne a parlare, il silenzio assordante che caratterizza la vita delle donne quando… vittime, prede.

La invito, lei fa cenno di sì con la testa, approva l’informale, si prepara a rispondere poi fa un giro del corpo sulla sedia e dice, anzi no, racconta.
Racconta di sua madre e di suo padre in Giappone, lei bambina, privi di tutto, di cibo e di libri, e dei suoi genitori che sono stati per lei, naturalmente, delle persone libro proprio come nel libro di Bradbury, lei dice, sbagliando deliziosamente i gradi Fahrenheit della temperatura a cui brucia la carta, e ci racconta – a noi – chi siano le persone libro di quel Libro e delle voci dei suoi genitori che ripetevano, a Dacia bambina, Pinocchio e Platone come se le parole fossero ugualmente importanti.
Il colore degli incipit. La nota d’inizio che accorda il fiato. So che sono libera, ora, di chiedere, di dire, di raccontarle chi sia Dacia per me, per un’intera generazione che con Lei è cresciuta.
Per la quale non provo nessuna nostalgia ma infinita gratitudine.

Passiamo dal Lei di cortesia – aspettavo il permesso – al tu confidenza perché l’intimità è cosa preziosa e lei sa abitarla, lei che parla del silenzio, della non-parola delle donne, della mancanza di autostima, di quel valore di Sè così fragile e inquieto, così instabile che contribuisce a creare la disparità e la perdita inventando relazioni impossibili.

Con Lui e con il Mondo.

Ci tengo a dirle, e a dire a chi ascolta, che un libro sulla violenza contro le donne scritto da Dacia Maraini è al di fuori di ogni sospetto di trend editoriale, di opportunismo perché Maraini ha sempre scritto parlato testimoniato l’essere femminile: ombre e luci; ha sempre scelto l’identità donna come oggetto del suo indagare e come attrice del suo narrare, a volte, con una scrittura testimonianza, al limite della parola asciutta; a volte, con una scrittura emancipatoria, enfatica; a volte, come gesto d’affetto e di empatia.
Il silenzio di Marianna Ucrìa, per esempio. Perfetto. Esemplare.

Ma sulla violenza – e lo sottolinea più volte – non c’è una vocazione naturale di genere, e afferra con entrambe le mani il microfono, perché tutto è sempre cultura ed educazione.

E io la sostengo citandole a memoria frasi che ha detto in diverse interviste, questo suo puntare il dito contro l’educazione “separata” che poi diventa “stratificazione di esperienze diverse” fino a costruire psicologie opposte.

Non ce l’ha con l’Uomo né con gli uomini questa Signora del femminismo romano, ed è piacevole ascoltarla mentre dice “anche gli uomini dovrebbero imparare a sublimare come, sempre, hanno fatto le donne”, guardando in faccia i diversi uomini che sono seduti… senza ammiccamenti, senza doppi sensi. Sublimare, cosa propria dell’arte. Ma non unica.

Ed è facile allora ricostruire con lei, passo dopo passo, i di-segni di una cultura che negli anni 70 ha cercato di scardinare le radici del male, sostenuta da movimenti di pensiero collettivo e di azione diversificata che hanno reso gli intellettuali, e le donne soprattutto, più vicine al sociale, più sporche di strada, e più capaci di interpretare maree e sogni. Questo sostegno che è venuto a mancare: il legame tra chi è magistra di parola e chi non ha voce, la cultura mercantile, imprenditoriale, meccanica, in questa insana enfasi della felicità preconfezionata, ha definitivamente spazzato via.

La gente ci ascolta. L’ascolta. Ne sento la densità. È un andirivieni il nostro parlare: io asserisco non pongo domande, sentenzio e lei s’insinua più dubbiosa, più duttile, più vasta. Affettuosa e lucida insieme.

Ci ritroviamo a fremere su questa cultura del mercato che ha inasprito il valore di merce dell’essere donna, che ha reso la relazione uomo/donna analoga a quella del consumatore/possessore di beni; ci rimpalliamo la riflessione su quanto questo dilagare di un pensiero unico machista, escortista, merceologico e mercenario abbia fatto riemergere la misoginia sociale della nostra cultura. Privando la libertà d’essere diversi, gli uomini e le donne.

È facile, allora, passeggiare insieme lungo la Storia, anche di quella televisiva, che ha dimenticato la sua vocazione educativa e formativa, il suo talento esplorativo.
– ti ricordi la tua trasmissione “Io scrivo tu scrivi?”
– Augias se ne andrà – lei risponde amareggiata.

In queste due battute si consuma tutto.

Non c’è posto per la lettura, per l’amore della lettura, anche

nelle scuole l’amore non entra.

Ci sono “griglie”, metodi ma non c’è l’educazione all’immaginazione, la porta spalancata ai viaggi dell’anima e della mente, quel respiro d’immenso che solo le parole sanno inventare, la libertà assoluta e privata, ogni volta inaugurata da ogni lettore che riscrive – dice proprio così – il libro che ha tra le mani.
Quanti libri hai nella tua biblioteca?
–  10.000.

Sono tutti nelle parole che dice: la lunga meditata sedimentazione che rende le parole altrui il moto per le proprie.
Ora so perché sono venuta qui, stasera. Non sono una presentarice di libri o di autori. Non sono una critica letteraria né un’opinionista. Sono una lettrice e sventolo la mia patente senza paura.
Ammetto: – Dacia, io sono polemica. Le persone libro in prima fila ridacchiano.
– Io sono contro una storia della Letteratura che ti etichetta come scrittrice “poliedrica” – dico: non senti questo appellativo come un insulto?

Lei abbassa lo sguardo, e io continuo: – sai perché ti definiscono “poliedrica”? perché hai scritto romanzi, articoli, saggi, sceneggiature, drammaturgie, poesie e invece di dare valore e riconoscere in questo l’attitudine necessaria alla sperimentazione, alla ricerca fedele della parola, siccome sei una donna, ti dicono “poliedrica”, ma se tu fossi un uomo, Dacia, se tu fossi… ti avrebbero osannato: saresti stata un Nome e Cognome con l’aureola.
– Perché – insisto – perché è così difficile riconoscere a una donna il diritto all’ambizione, al leaderismo, al potere, alla padronanza di sé? E tu lo sai perché hai dovuto sopportare a lungo la fama della “donna di”… prima di essere degna di attenzione singola, hai dovuto inventare Marianna per salvarti.

Mi accascio – ero venuta per questo.

Lei tiene gli occhi bassi e prende appunti come se la valanga delle mie parole, dall’inizio di questa “conversazione”, dovesse essere trasformata in sassi più semplici, in segni distillati ma poi, dentro il mio improvviso silenzio, lei sussurra: grazie.
E poi prende il timone e racconta… racconta della scrittura sensuale di Deledda: – i suoi personaggi non si appoggiano alla Natura ma sono il frutto che cresce in quella Natura; racconta che Ortese è luminosa quanto Calvino …
E allora le ricordo le milleforme della sua scrittura, i colori di questo suo cercarsi: dalla testimonianza cronachistica al rovesciamento del punto di vista sul mondo: emancipatoria, liberatrice; dal realismo storico a quel tentativo quasi di auto-autorizzazione all’intimità, a una scrittura gesto d’affetto, quella che ha saputo rendere i pensieri della “mutola”, quella che ha restituito vita e voce alle persone amate che l’hanno amata in quel libro quasi a parte, di cui pochi sanno, che è “Giorno di Festa“.

E lei, allora, parla parla della memoria, dell’importanza del ricordare – per i vivi intendo, per noi vivi. Parla dell’oralità che della memoria è sorella, della negazione della morte in questa nostra società laddove la coralità partecipata e il legame mai estinto erano un rito agricolo e contadino fortissimo – e il Giappone in questo ci è superiore – e dell’atteggiamento antropologico di empatia e di curiosità che ha ereditato dal padre, di quell’amore per la pennellata che è dono talentuoso di madre, ed è facile, tremendamente facile lasciarla andare mentre le bellissime foto di Fosco Maraini, il padre antropologo, volano dietro di noi, appese con le mollette, nel vento di una incredibile estate che ancora ci manca.

E nell’amarcord genitoriale io le deposito pezzi personali: il mio incontro diretto, con Lei traduttrice, alla Libreria Croce – che ha chiuso! urla qualcuno dalla sala – lei e Margarethe von Trotta ai tempi del litigio per una frase tradotta (“Lucida follia“) e poi quel loro lavorare insieme, dopo, spalla a spalla, sulla sceneggiatura ispirata alle “Tre sorelle” di Cechov: la teutonica disordinata – lei ride – fumatrice, e la Dacia puntuale e meticolosa. – Lavoravamo insieme ma io le chiedevo di starmi lontana con quella benedetta sigaretta.

E suo padre e ancora sua madre, che ha 99 anni e che l’altra sera le ha detto: – lo sai Dacia… mi è venuta voglia di studiare il tedesco!
E poi ancora… la benedizione dell’oralità – avete letto Ong? Leggetelo!, e la parola-azione dell’amato teatro che dai tempi de La Maddalena non ha mai abbandonato perché fatto di corpo, di ascolto: – il pubblico che viene a teatro costruisce il teatro, non c’è parola che possa esistere senza la risposta dell’ascolto; tutto si spegne, muore, anche un testo di Shakespeare, se non si crea quella relazione tra l’attore e il pubblico. L’ascolto è fisicità.

È il “la”, l’accordo perfetto. È tempo che entrino le voci-corpo dei libri: i brani scelti, per amore, dalle persone libro di Roma.
Sono Marianna Ucria, sono Juana de La Cruz (la sua traduzione), sono una poesia da quella raccolta antica che è “Mangiami pure“, sono… sono… non me li ricordo tutti, scusatemi.

– Che effetto fa ascoltare le parole che hai scritto?
Lei abbassa la testa, sorride: – è commovente. Riprende il microfono: guarda tutti e tutte: è commovente – ripete. Vuole che si senta.

Dacia Maraini, scrittrice, giornalista, drammaturga, sceneggiatrice, saggista e poeta.
Una Madre della nostra Storia letteraria e sociale. Così l’ha “nominata” Antonella che si affretta a tornare a casa per pubblicare le foto.

“vorrei volando volare/ e riempire di allegrie/le spine del buio”

(da “Ho sognato di volare, D.M.)

Sandra Giuliani

http://personelibrodonnedicarta.wordpress.com/2013/06/29/ho-sognato-di-volare-dacia-maraini/

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