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La scoperta del mondo ovvero il “diario politico” della Castellina ed. nottetempo

2011/07/27 - Letteratura di: MG Colombo
La scoperta del mondo ovvero il “diario politico” della Castellina ed. nottetempo

 

Avere 14 anni e tenere un diario è quasi fisiologico, ma se vi chiamate  Castellina e giocavate  a tennis con Anna Maria (??!, Mussolini of course), può accadervi di rischiare di vincere, 70 anni dopo,  lo Strega.

Ad avercela una nonna come la mitica Luciana, fondatrice de Il Manifesto, direttrice di Liberazione, tre volte deputata, quattro volte parlamentare europea, protagonista di tanti eventi inscritti nella cruna del secolo scorso, con l’ imperitura voglia di mettersi in gioco.

Con uno stile di documentaristica semplicità ma strenua eleganza, la Castellina rievoca il disatteso  sogno di fare il facchino, l’iscrizione al PCI, i tanti viaggi formativi che la vedono viaggiatrice attenta,  soggiogata da Parigi, indiscussa capitale culturale di  allora, ove, dismesso l’infantile sogno del facchino, sogna un avvenire di pittrice e incontra, ( il milieu lo impone, i Deux Magots pure ) Guttuso, Mafai, Picasso.

Ecco la bella pariolina, sdegnosa della tribù di appartenenza,  impegnata nei campi di lavoro della ex Jugoslavia, a Praga in un duro confronto con il comunismo internazionale  e peggio, verrebbe da dire,  con l’inguaribile moralismo dei Compagni, insofferenti, per dirne una, di reggiseni stesi all’aria, per la nota serie Viziprivatipubblichevirtù.

Con franchezza che conquista la Castellina dichiara “nostalgia di un tempo non di un partito, ma senza quel partito  quel tempo non sarebbe stato uguale”.

Una lettura scorrevole, un quieto “comeravamo” nel segno della spontaneità, con episodi personali inediti, straordinariamente ricchi e mai banalmente scontati, pur nell’eccezionalità del contesto storico, sociale nel quale sono inscritti.

Ecco le prime pagine del diario pubblicato da Nottetempo.

1. La guerra

Riccione. 25 luglio 1943

Dovevano essere pressappoco le sette di sera. A luglio, a quell’ora, è ancora giorno, anche se le ombre della pineta che circondava il tennis avevano cominciato ad allungarsi. Ricordo che il campo era ombroso mentre io e Anna Maria ci tiravamo palle inesperte oltre la rete. Lei, oltretutto, aveva avuto la paralisi infantile e correva male.

Fu allora che la guardia in borghese venne a chiamarla e il palleggio terminò bruscamente. Senza spiegazioni. Mi disse solo: “Devo andare via subito”. E sparí dietro al poliziotto che da sempre fungeva da governante per lei e per suo fratello Romano.

Anna Maria era Anna Maria Mussolini, figlia di Benito e Rachele, mia compagna di classe alle elementari e nei primi due anni delle medie: ’40-’41, ’41-’42. Non in terza, ’42-’43, perché io avevo dovuto trasferirmi a Verona. Ma ci eravamo ritrovate lí a Riccione, dove il nostro gioco venne interrotto. Era la sera del 25 luglio 1943 e suo padre era stato arrestato a Roma nel corso della giornata. “Trattenuto alla caserma

4Podgora, a Trastevere” (“per proteggerlo”, si fece sapere in seguito, quasi scusandosi).

Capii solo a tarda notte cosa c’era dietro quell’inspiegabile, improvviso commiato. Davanti all’Hotel Vienna dove, per via del ping-pong nel giardino, si riuniva il nostro gruppo, trovai gli altri, per lo piú amici di mia cugina Paoletta e dunque quasi tutti parecchio piú vecchi. A me, neppure quattordicenne, quasi non rivolgevano la parola. Ma mi stettero a sentire, quella volta, quando cominciai a raccontare di Villa Mussolini. Avevo intuito che quell’anticipata fine di partita di tennis doveva avere un significato.

Dell’arresto del Duce, l’EIAR dette informazione che era già notte.

L’indomani, sul mare, molti cutter, le piccole barche a vela all’epoca di moda, avevano inalberato il gran pavese. “Per festeggiare,” mi spiegarono i piú grandi. Sui bragozzi ormeggiati al largo, comitive di villeggianti cantavano niente di meno che l’inno di Mameli e le canzoni della Prima Guerra Mondiale. Sempre per festeggiare. E all’ora di pranzo, in pensione, arrivarono a tavola inaspettate le tagliatelle di farina bianca. “Per festeggiare,” ripeté in un sussurro complice e circospetto la cameriera romagnola.

È cosí che, a quattordici anni, sono stata iniziata alla politica. Una scoperta importante, tant’è vero che proprio quel giorno – il 26 luglio 1943 – cominciai a

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redigere un “diario politico”, come scrissi sul frontespizio. Usai il retro di un vecchio quaderno di scuola (Classe III media, Collegio degli Angeli, Verona, città dove per un anno fui costretta a vivere per ragioni famigliari), precedentemente dedicato alle “cronache”, le esercitazioni di italiano allora in uso alle medie. Una di queste, qualche mese prima, era intitolata “Tornano gli alpini”. Vi si parla di quelli della Julia che “hanno valorosamente combattuto in Russia e lungamente marciato nella steppa nevosa, e ora sfilano con le bandiere e gli stendardi laceri e sporchi, testimoni della furia nemica e del valore italiano. Noi abbiamo la mano protesa nel saluto romano”.

È appoggiandomi a questo diario, scritto fino all’autunno del ’47 (una quantità di quaderni fittissimi), che cercherò di ricostruire le tappe della mia iniziazione politica, un pezzo di storia di un pezzo della mia generazione, nata fra la fine degli anni ’20 e l’inizio dei ’30.

26 luglio 1943

Il primo giorno del postfascismo scopro moltissime cose.

Intanto lo smarrimento: il regime fascista è il contesto trovato quando ho raggiunto l’età della ragione, il solo a disposizione, altri non ne ho, nessuno me ne ha fatti intravedere, se non dicendomi che la guerra,

6che quell’estate ha già traversato mezzo mondo, porta l’Italia al disastro. Come tutti i miei coetanei, sono disorientata.

Scopro anche, nientemeno, lo spirito patriottico. Dico che si risveglia, perché ”

Bisogna vincere la guerra, dunque, ma resto male quando vengo a sapere che non è scoppiata la pace.

si era assopito in tutti gli italiani che vedevano la loro Patria” (sempre con la P maiuscola) “comandata da un uomo che la portava alla rovina”. Infatti, riferisco, “poiché sono ed ero antifascista, desideravo, a malincuore, che gli inglesi venissero in Italia e ci liberassero dai tedeschi, in una parola che noi perdessimo la guerra”. Adesso decido che la guerra, invece, va vinta, “perché ora si combatte per Casa Savoia”. Aggiungo persino un “Viva l’Italia”. Il 26 è lunedí e i giornali non escono. Perciò continuiamo a saper poco. Ma all’una”, scrivo, “siamo corsi tutti alla radio. Cosa diranno? Ecco: Giornale Radio… Bollettino 1157… Comando Supremo… In Sicilia… Qualche cambiamento di forma, ma il contenuto è sempre uguale. E poi, il proclama di Badoglio: rigidezza innanzitutto e niente entusiasmi né manifestazioni, fuori luogo in questo momento in cui tutti gli sforzi della nazione devono essere tesi verso la vittoria”. “L’Italia – prosegue il comunicato, a ulteriore chiarimento dei cittadini – tiene fede alla parola data, gelosa custode della sua millenaria tradizione”. “Fine della trasmissio7 ne

 

“, annoto sconsolata nel diario, dopo aver riportato il testo della dichiarazione. (Piú tardi, sotto il tendone della spiaggia, giunge voce che il senatore Morgagni – presidente, mi dicono, dell’Agenzia Stefani, l’attuale ANSA – si è sparato). Tutti ci smontiamo un po’. Niente pace vicina, i tedeschi sempre in casa nostra”. Anzi, la guerra, ora, durerà anche piú a lungo, perché “le due divisioni italiane che si sono arrese in Sicilia senza combattere, se avessero saputo che Mussolini il giorno dopo non sarebbe stato piú capo del governo, si sarebbero fatte martoriare pur di non cedere”. “Perché”, aggiungo, “io sono italiana e gli italiani li conosco”.

 

 

 

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