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Marcello Fois per Maria Lai, modello attivo per una Sardegna non colonizzata, folklorica, accademizzata, ruffiana..

2013/04/24 - Attualità di: MG Colombo
Marcello Fois per Maria Lai, modello attivo per una Sardegna non colonizzata, folklorica, accademizzata, ruffiana..

Così Marcello Fois su la Nuova Sardegna 18 aprile 2013

“Chi volesse stabilire un paradigma, un punto di non ritorno, un gradiente che possa quantificare, e qualificare, il grado di delicatezza e fortezza, – di morbidezza e tenacia – in cui si dibatte l’ecosistema etico e culturale della nostra Sardegna martoriata (dissipata, da noi stessi disprezzata), oggi ha un’unità di misura precisissima, infallibile, che si chiama Maria Lai. Oggi che la morte corporea l’ha trasferita dove vanno gli artisti; oggi che un’apparenza di assenza ce la fa definire “morta”; oggi che si può dire sia stata messa a tacere dalla conclusione biologica del suo soggiorno in terra, ebbene: Maria Lai non è mai stata tanto presente, tanto viva, tanto parlante come oggi. E non è mai stata tanto figura di qualcosa che molti di noi definirebbero, con faciloneria, orgoglio, ma che altri, più schietti e meno distratti dalla celebrazione di se stessi, hanno definito, semplicemente, dignità. Tra l’orgoglio e la dignità infatti si è giocato il mistero limpidissimo di questa donna.

A chi le chiedesse quale fosse il problema dell’arte lei rispondeva che non era l’arte a porre problemi, ma la condizione di chi ritiene di essere artista a dispetto della sofferenza che quell’appellativo comporta. Diceva che siamo di fronte a persone più attente al guadagno che alla portata del progetto che propongono. E che, anzi, spesso quel progetto era il frutto di un pensiero fittile, occhiuto, conservatore, anche quando aveva apparenza di novità. Diceva che «l’arte è una concretezza che contiene un pezzo di universo e ce lo rende afferrabile perché non ci sfugga». Sembrava rispondere a una domanda precisa, limitata nel tempo, nello spazio e nell’ambito, e invece parlava di noi. Parlava della nostra drammatica perdita di senso. Parlava di una condizione non succedanea dell’arte, ma sostanziale, addirittura centrale nella necessità di trovare un bandolo.

Tutta un’altra Sardegna. Persino il paradosso di una Sardegna senza Sardegna perché Maria Lai era, è, sarà artista e quindi patrimonio dell’umanità. Per me, e per alcuni degli intellettuali della mia generazione, il privilegio di conoscere questa minutissima donna si è espresso nella necessità di esserle adeguati. Perché avere a che fare con lei direttamente era sentirsi in rapporto con l’immagine stessa di quella terra che da sempre andiamo auspicando ma che non riusciamo a concretizzare. Era lì, era Maria Lai. E’ Maria Lai. Una condizione di tenacia nel rifiutare quanto rischiava di adattarla ad un pensiero colonizzato, folklorico, accademizzato, finanziario, ruffiano. Abbiamo lavorato insieme per un progetto che si chiamava “Essere è tessere”, avremmo dovuto metterci al lavoro per un monumento alla Deledda e, devo dire, in entrambi i casi ho sentito il panico che uno studentello prova di fronte al maestro. Perché avere a che fare con Maria Lai era sempre avere a che fare con un’idea di Sardegna in atto, con un modello attivo in cui resistere significava seguire limpidamente la propria intangibile integrità. Un modello difficilissimo da portare, pesante di una pesantezza terribile specialmente in un territorio dove della magmatica, insondabile, scafata, ambiguità si è fatto uno stile di vita non solo intellettuale, ma anche politico ed economico. Molti che non l’amavano oggi interpreteranno visi lacrimosi, perché la nostra, locale, fabbrica delle prefiche è sempre florida, e ne sforna continuamente come la madre dei cretini. Molti che non la capivano continueranno a non capirla, ma si faranno vanto di avere una sua opera in casa. E questo perché credono che la morte di Maria Lai abbia finalmente trasferito il suo peso specifico dalla condizione attiva a quella passiva.

Si dovranno ricredere perché non si può in nessun modo sconfiggere chi è riuscita a cucire se stessa «capretta ansiosa di precipizi» fra le altre caprette col filo di ferro in un muro di cemento. Perché non si può ingannare chi sa ascoltare e Ascoltare era l’arte di Maria Lai: ascoltare la roccia, la terra, la parete, la tela… Si dovranno ricredere perché le sue Janas ricamate sono porte, varchi con gli occhi, confini tramite i quali si può passare attraverso la morte che non è in nulla un «mancare», ma al contrario un «permanere»: «I morti chiedono: chi è l’uomo? E una voce risponde è un varco attraverso cui il grande mondo entra nel piccolo mondo… Io mi illudo che la morte sia una cosa bellissima di cui non abbiamo idea ma che ci immette in un mondo migliore».

Queste le sue parole. Inutile illudersi che quel varco si sia chiuso con la morte di Maria Lai”.

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