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I vivi e i morti – Andrea Gentile

2018/11/30 - Biblioteche, Letteratura, Premio Biblioteche di Roma 2018 di: MG Colombo
I vivi e i morti – Andrea Gentile

“Io, come singolo individuo, sono uno zero”
 Robert Walser

A contrastare la gran moda della narrazione in prima persona ( anche nell’ambito del Premio dell Biblioteche di Roma con i pur apprezzabili e intensi Alajmo e Levantino), ci pensa Andrea Gentile, ferocemente bravo nel proporre l’azzardosa narrazione corale del suo I vivi e i morti, ed.minimum fax.

” Un lungo poema in prosa” come osserva con felice sintesi Pierpaolo Capovilla.

Chi non si sentisse sfregiato dal materialismo del nostro tempo, devastato dalla disumanità contemporanea, potrebbe scambiare la narrazione di Andrea Gentile per un intrigante delirio noir  fine a se stesso.
Un’inattualistica vicenda, un feroce fantasy da relegare in un non meglio precisato luogo sulle pendici del Monte Capraro, ove magari tenere un rave millenial, con lo sfondo sonoro della  “Trenodia per le vittime di Hiroshima” di Krzysztof Penderecki.

Accade, invece, al lettore che imbocca  la strada per le Masserie di Cristo, ove anche “ogni sorriso è un dispiacere”, di essere fin da subito trascinato dal ritmo incalzante della narrazione magica e al tempo stesso analitica, tenebrosa ed agile, nella feroce volgarità del nostro mondo.

In ognuno dei 116 capitoli, in una torbida atmosfera alla Blade runner, rieccheggia l’hobbesiano Homo homini lupus, mai così rinverdito come nei tempi amari dei respingimenti, delle violenze quotidiane, delle sperequazioni, dei disastri naturali, delle popolazioni in fuga.
La fa da padrona la (dis)umanità, la grettezza che si dipana nel Tempo e nello Spazio, filo rosso narrativo dagli sfracelli omerici agli orrori postatomici mcCarthyani, dalle pendici del monte Ida a quelle di monte Capraro, per rimaner nel microcosmo gentiliano, tralasciando i barbarici set mediterranei e/o messicani di stretta attualità.

Non è un romanzo ma una riflessione sul maledettismo dell’impotenza umana a riconoscersi in una comunità, a trovare stabilità in un contratto sociale, che ne garantisca la sopravvivenza a fronte dell’inciviltà e del degrado.
E’ un grottesco affresco quello di Andrea Gentile, con sequenze alla Béla Tarr, in cui la brulicante massa dei personaggi immersa in una allucinata atmosfera da fine (?) o principio(?) del mondo, ha perso o forse non ancora trovato le regole del vivere comune.
.”Questo sarà il tempo che fu” si intitola l’ultimo capitolo.

E non ce n’è per nessuno: manco per il dio Cervo, per donne, per bambini “involtini di interiora” ( Dickens, chi sei?)

In questo specchio deformato dal virtuosismo parossistico di Gentile, assente ogni intento pedagogico, il lettore vede se stesso e i suoi simili preda di comportamenti osceni e incivili, che determinano una distanza emozionale, la presa di coscienza di un punto di non ritorno per l’umanità, senza la correzione di comportamenti apertamente grotteschi e autolesionisti.

Per parafrasare ironicamente Philip K. Dick:
Scorrete lacrime, disse… Andrea Gentile 

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