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Salvo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

2013/07/11 - Cinema di: MG Colombo
Salvo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

La Mafia come cecità, come squallore di vita, afasia sentimentale, voglia di libertà da schemi opprimenti.

Ma anche difficoltà ad eluderne i meccanismi, subalternità ai ruoli, denuncia di colpevole connivenze.

Il titolo suggerisce un protagonista, in realtà la narrazione prevede un’intera microsocietà imprigionata in stereotipi di violenza, sopraffazione, miseria intellettuale, attraverso una storia che nella sua inverosimiglianza parla di voglia di libertà, di riscatto, di tenerezza.

Film di forti contrasti di genere, di sentimenti, di luci.

In una Palermo da mezzogiornodifuoco, un agguato mafioso si consuma nella polvere e nel sangue, Salvo, pitbull in forma umana di un locale padrino, con vezzi alla Marlon Brando, nel concludere la mattanza giornaliera, finisce nella casa dell’ultima vittima, la cui sorella cieca, Rita, assiste impotente al brutale assassinio.

A questo punto un audace cambio di passo della sceneggiatura, porta Salvo, autistico genio del male, a specchiarsi nell’handicap di Rita, con conseguente profonda crisi esistenziale.

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Come dire, sotto il coccodrillo (Lacoste, brand prediletto dal killer) batte un cuore e la macchina per uccidere si vota alla sopravvivenza e salvezza della suddetta, al ritmo pop-ossessivo della canzone Arriverà dei Modà.

Come sa e come può, tenendola brutalmente segregata in uno scenario alla Garrone, ma con inaspettate delicatezze, che finiscono per coinvolgere anche la vittima.

Sì, la storia non regge in nessun modo e tuttavia prende lo spettatore per la maestria registica che si muove con grande perizia tra generi diversi, uno dentro l’altro come scatole cinesi, attingendo all’epico americano e al sofisticato orientale, con straordinaria padronanza di mezzi, puntando tutto sull’immagine e sul sonoro della vita che scorre al di là dei claustrofobici spazi in cui sono costretti i protagonisti.

 I personaggi, al contrario di ciò che accade in Cecità di Saramago,  improvvisamente tornano a vedere: l’una con gli occhi, l’altro con l’animo.

Dolorosamente come insegna Oliver Sacks.

Il film conquista per l’ottima recitazione affidata all’enigmatica presenza di Saleh Bakri, già apprezzato in Il tempo che ci rimane di Elia Suleiman e all’espressività tutta corporea dell’esordiente Sara Serraiocco, in grado di reggere lunghi angoscianti piani sequenza.

 Motivo di vanto del film la suggestiva fotografia di Daniele Ciprì,  le scenografie di Marco Dentici, i rumori fuori campo di botte, catene, passi, motorini, navi in partenza, che raccontano più delle immagini e creano suggestive atmosfere.

Come nella scena finale ove in assenza di parole, il rumore del mare suggella una storia tanto amara quanto aperta a riflessione.

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Gran Prix de la Semaine de la Critique e il Prix Révélation della Semaine, al festival di Cannes, il film si avvale anche della presenza di un misuratissimo Lo Cascio a rappresentare una grottesca diffusa acquiescenza, ed è dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

E alla cecità della nostra società.

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