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Alice Munro nel paese dei Nobel.

2013/10/10 - Attualità, Letteratura di: MG Colombo
Alice Munro nel paese dei Nobel.

Premio Nobel della Letteratura ad Alice Munro

10 Ottobre 2013

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Pietro Citati La malattia dell’infinitoLa letteratura del Novecento Mondadori 2008

I racconti di Alice Munro

Se dovessi consigliare ai lettori italiani due libri di narrativa, non avrei esitazioni:

 Il sogno di mia madre e Nemico, amico, amante…, entrambi di Alice Munro.

So che, in Italia, forse appena trenta persone conoscono che Alice Munro è nata, settantasette anni fa, in Canada e ha scritto dieci raccolte di racconti e un romanzo: mentre milioni di americani, inglesi, francesi, italiani, tedeschi leggono delirando i romanzi sovente pessimi, talora mediocri, rarissimamente buoni di Philip Roth.

Ma spero che, a poco a poco, quelle trenta persone si moltiplicheranno, perché i buoni lettori sono come la zizzania dei Vangeli. E, tra pochi anni, chiunque vorrà parlare di un bellissimo racconto, o di una sottile accortezza narrativa, o di una visione del mondo tanto ricca quanto inafferrabile, dirà: «Mi ricorda un libro di Alice Munro. Lo leggerò subito».

Ho parlato di racconto. E mi accorgo di sbagliare. Perché non esiste il racconto secondo la Munro, ma ne esistono molte forme e incarnazioni, anche in queste due ultime raccolte, pubblicate nel 1998 e nel 2001. Ogni volta che iniziamo una di queste storie penetriamo in un nuovo cosmo narrativo, che obbedisce a proprie leggi e preferenze, e ogni volta ci sentiamo spaesati, stupiti, talora sconvolti. Non capiamo, e solo lentamente ci abitueremo alle omissioni, alle sorprese, alle deviazioni, ai balzi di tempo, ai bianchi profondi come abissi che ne costellano la superficie.

Forse la Munro preferisce il racconto lungo: Una donna di cuore e Nemico, amico, amante…: il primo di ottantacinque, il secondo di cinquantacinque pagine, sono i capolavori delle due raccolte.

Essi sono concentratissimi come i racconti di James: a volte abbiamo l’impressione che si complichino come romanzi di Balzac, o contengano storie di intere famiglie e paesi come Guerra e pace.

Quando appare un personaggio, crediamo che sia quello principale, poi se ne affaccia un altro, che ne prende il posto, e poi ancora un altro e ancora un altro: mentre il primo personaggio si sposta, cambia idee e natura, e ci sembra di non riconoscerlo più. Non ascoltiamo la Munro, la quale sostiene di «non costruire storie», ma «di acciuffare con la mano qualcosa nell’aria», seguendo una intuizione misteriosa.

Ciò che ammiro, nel Sogno di mia madre e in Nemico, amico, amante…, è in primo luogo l’arte di una costruzione tanto ampia quanto meticolosa, che calcola tutti i particolari e li dispone in un arco vasto come il mondo.

Da Henry James, il padre di tutti coloro che, nei tempi moderni, raccontano storie, Alice Munro ha imparato che la prima qualità di un racconto è l’enigma: ogni storia è un mistero, che la collaborazione dell’autore e del lettore portano lentamente alla luce. Appena entriamo in un racconto, c’è un piccolo enigma, e poi un altro piccolo enigma, e poi un terzo e un quarto. Ecco una prima sorpresa: la signora, che ha appena comprato un elegante vestito nuovo, è in realtà una domestica: poi c’è un’enorme omissione o un radicale capovolgimento o una travolgente scoperta – le lettere d’amore di Ken Boudreau a Johanna sono state scritte da due ragazze impudenti.

L’inatteso si nasconde in ogni riga: oppure si scatena la più romanzesca e melodrammatica inverosimiglianza. Alla fine, il vero modello sembra essere il grande genio, tenero e tenebroso, che ha ispirato la letteratura americana: Nathaniel Hawthorne.

Se posso dare un consiglio al lettore, è quello di leggere con grandissima attenzione, perché perdere un solo particolare, o un’allusione temporale o il colore di un vestito o di una nuvola o un sorriso, lo porterebbe irrimediabilmente fuori strada. Ma il lettore non abbia timore: la Munro non è una scrittrice per pochi; parla a tutti, e racconta le storie di tutti, le storie che accadono al contadino, alla domestica, all’infermiera e al bambino di tre anni, e quindi a ognuno di noi che leggiamo e fantastichiamo.

Di rado, in questi racconti, appaiono storie di scrittori. Se i personaggi scrivono, sono ragazze: forse diventeranno grandi come Virginia Woolf o Karen Blixen; ma intanto raccontare, per loro, è come intrecciare i fili di un pullover o rammendare un lenzuolo o preparare una frittata di zucchine.

Qui appare, come si diceva una volta, la vita quotidiana. Possiamo essere certi che, a Vancouver o nelle piccole città dell’Ontario, quarant’anni fa o ieri, accadeva esattamente così. Questi erano i riti dei funerali: le battute pronunciate durante i matrimoni: queste le tartine alla crema o all’uvetta: questo il vestito prémaman; queste le pieghe che si formavano nei vestiti di lino, o i minuscoli fiori rosa, giallo o azzurro, ricamati negli angoli dei tovaglioli. Di solito, abitiamo in una famiglia, e partecipiamo a quell’intreccio di voci, oggetti, cose taciute, tensioni nascoste, odi profondissimi, portati in cuore per tutta una vita, che è una famiglia. In un secolo, la famiglia si è trasformata.

Eppure essa è ancora, come quando Tolstoj scriveva Anna Karenina, il simbolo più evidente di quell’inestricabile intreccio che è l’arte del racconto e del romanzo.

Dove c’è una famiglia, ci sono mobili, letti, lampadari, tappeti, poltrone, sofà, cucine, librerie: una massa di oggetti riempie le case europee e americane. La Munro possiede un vero genio per gli oggetti e gli interni famigliari: genio che sembra discendere dal più grande pittore di interni che sia mai esistito, Balzac, sebbene le nostre case siano tanto più vuote di quelle del 1830 o del 1840.

La Munro conosce il peso, il colore, la massa, il volume, il rilievo di ogni mobile, e il rapporto che intrattiene con ogni persona della famiglia. Sebbene molti sostengano che il mondo di oggi sia astratto e disincarnato, lei continua, imperterrita, a raccogliere letti, vestiti e tartine nelle sue storie.

La Munro ha due passioni: quella per le deviazioni narrative e quella per gli spazi bianchi.

Molto spesso, quando racconta un fatto, non narra quel fatto e i sentimenti e le sensazioni che esso suscita: ma qualcosa di apparentemente laterale; invece di analizzare le sensazioni di una donna che sta per morire di cancro, descrive una bottega di calzolaio o un cane che si aggira in un cortile, suscitando in noi un’impressione di casualità e di gravità, che ci sembra assolutamente necessaria. O, all’improvviso, apre uno spazio bianco in un racconto. In quel bianco trascorrono anni, decenni: un abisso allontana il presente e il passato: il tempo passa senza che nessuno se ne accorga; e noi avvertiamo, al tempo stesso, il senso della continuità e quello della lacerazione che formano il tessuto diseguale della nostra vita.

Vi sono grandi scrittori, come Dostoevskij, che prima di cominciare a scrivere sono posseduti da grandiose idee sul mondo, sebbene poi la loro immaginazione si impossessi delle idee e le trasformi, fino ad architettare quel labirinto quasi incomprensibile di relazioni che è un vero romanzo. La mente della Munro è pura: nessuna idea preconcetta macchia o adombra la sua obbiettività, che forse qualcuno potrebbe paragonare a quella di Dio o della morte.

Quando la leggiamo, tutto ci sembra incantevole: ma lo sfondo, vasto e intermittente, che si avverte in ogni riga, è pieno di minacce – morti sinistre, destini incomprensibili, dolori che nessuno potrebbe sopportare, disastri, irruzioni di qualcosa che assomiglia all’amore, le tremende ferite che ci infliggono i morti; o, al contrario, beffe crudeli che realizzano i piani di colei che, forse, porta il nome di Provvidenza.

Non sappiamo cosa la Munro pensi della vita: suppongo che accetti religiosamente ciò che accade, e nutra una «ferrea devozione» verso quello che vede; eppure cerchi, con calma, lentamente e segretamente, di mettere ordine nell’esistenza. Sebbene da nessuna parte si intraveda una luce, l’arte è ancora, per lei, un timido tentativo di mettere ordine nelle cose scritte e, dunque, anche in quelle che sono accadute, accadono e accadranno nel mondo.

Come quella di Flannery O’Connor, l’immaginazione di Alice Munro affonda nel passato contadino del Canada e degli Stati Uniti. La sua vera patria sono gli anni tra il 1935 e il 1950, quando la cosiddetta civiltà di massa non aveva (apparentemente) uniformato il mondo. Era il tempo dei grandi pranzi famigliari, quando i convitati, seduti attorno a un lungo tavolo, tagliavano, sorbivano, ingoiavano, digerivano, «illuminati dal candore abbacinante della tovaglia bianca, mentre la luce violenta entrava a fiotti dai vetri appena puliti».

La conversazione riguardava esclusivamente cose pratiche: chi aveva un tumore, chi un’infezione alla gola, chi una brutta orticaria. Nessuno leggeva, o fingeva di pensare. La mattina i mariti uscivano di casa con il collo straziato dal nodo della cravatta, e ricomparivano la sera, pronti a disperdere occhiate di arrogante sufficienza sul timido mondo femminile, immerso in una perpetua adolescenza.

Allora la natura era inesplorata, sontuosa e ricchissima: alberi stracarichi di foglie, arbusti soffocati dalla vite vergine o dall’edera della Virginia, distese di grano, orzo e granturco, erba da pascolo: tutte le piante e le pietre sembravano creazioni antropomorfe, dove si aggiravano ragazzi liberissimi e avventurosi – gli ultimi eredi di Huckleberry Finn.

Questi racconti sono probabilmente i più folti, ricchi e pieni di assonanze che Alice Munro abbia composto, come se non potesse distogliere lo sguardo dalla patria originaria della sua immaginazione.

Ma II sogno di mia madre Nemico, amico, amante... comprendono anche racconti di argomento moderno, ambientati nel 1999 o nel 2000. Come ogni vera scrittrice, la Munro sente l’obbligo e il piacere di guardarsi attorno, di seguire le minime mode, di ascoltare il linguaggio dei ragazzi e delle ragazze, di entrare in un negozio, presentendo cosa sta per accadere nelle città e nei villaggi del Canada.

Il presente è lievissimo: è nato stamani e domani non ci sarà più: è pieno di incanto e di grazia, come tutto ciò che è effimero; ma ha perduto il volume e lo spessore che distingueva il passato. Non ha radici: forse non ha futuro. Qualche volta è insopportabile: come quando la Munro cerca di rappresentare un party di in­tellettuali. È un argomento che Orazio e Boileau, se fossero vivi, avrebbero proscritto dai temi concessi a un narratore.

Negli ultimi anni, almeno in Canada, è successo qualcosa di irreparabile.

I maschi sono scomparsi: fanno distrattamente figli nei vagoni letto o sui divani (quasi mai su un letto coniu­gale) e poi si eclissano, fuggono via, a scrivere pessimi libri o a compiere pomposamente uno di quei lavori (presidenti della repubblica, ministri, amministratori delegati, manager), di cui il mondo moderno non ha il minimo bisogno. Le donne sono rimaste, e si aggregano a gruppi, generazioni e generazioni: la nonna, la madre, la figlia, la vedova del figlio, qualche bambi­na supplementare, nata chissà dove e come. Non sono mai state così bene insieme: certo molto meglio di quando, una o due generazioni fa, indossavano guanti e cappelli a tesa con la veletta, e dettavano legge nei salotti.

Di solito, non hanno molto denaro, perché vivono in una perpetua vacanza, sulle rive del mare o dei laghi, in una so­spensione dalla vita, che è forse l’unico modo decente di esi­stere. Così questi racconti parlano sopratutto di argomenti femminili: come stirare le asole di lato e non di fronte («in modo che non si veda il segno del ferro»), come indossare una camicetta leggera, come fronteggiare la rottura delle acque, gli strilli dei poppanti, l’educazione dei bambini, le se­parazioni, i divorzi, i rari rapporti coi mariti. Qualsiasi cosa accada, il mondo femminile conserva una forma, che lo sgre­tolato mondo maschile ha smarrito completamente; e qualche volta «una grazia piena, tranquilla, classica, ottenuta con l’ab­negazione e il senso del dovere».

Le donne si trascinano dietro i bambini e la commedia. I bambini corrono a sciami lungo i mari e i fiumi: non sanno niente di ciò che è accaduto trent’anni fa: ma hanno un’imma­ginazione immensa, come ai tempi di Omero, sebbene l’appli­chino alle navi spaziali invece che ai cavalli di Achille; e sotto gli amorosi e distratti occhi delle donne, fantasticano e blatera­no, preparando senza saperlo quel futuro che noi non cono­sciamo e che essi intravedono nei chiari occhi lamentosi. Quanto alla commedia, è diventata un tema esclusivamente femminile. Gli uomini non ridono più o sempre sovrapensiero e di lato. Il sogno di mia madre racconta i pianti di una bambina, che rifiuta le cure della madre: «È come un temporale – insi­stente, eccessivo, eppure in un certo senso anche puro, sponta­neo. Sa più di rimprovero che non di supplica: scaturisce da una rabbia implacabile, una rabbia innata e scevra d’amore come di compassione, pronta a farti saltare il cervello dentro la scatola cranica». È solo il pianto di una poppante: ma la Munro l’orchestra con una genialità demoniaca e divertentis­sima, come se fosse il nuovo Hoffmann del ventesimo secolo.

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vedi anche:

Il Sole 24 ore del 19 febbraio 2012

Dal Canada/1

Brividi di realtà

«Troppa felicità», l’ultima raccolta di racconti tradotti in Italia (ma già nuovi ne sono usciti in Inghilterra), conferma lo stato di grazia dell’autrice, ritenuta «una divinità letteraria»

di Luigi Sampietro

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Mario Fortunato “Alice allo specchio

L’Espresso n°45 4 novembre 2011

http://foglianuova.wordpress.com/2013/10/10/pietro-citati-i-racconti-di-alice-munro/

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