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Luiz Ruffato, elogio della lettura.

2013/10/17 - Attualità, Conferenza, Fiera di: MG Colombo
Luiz Ruffato, elogio della lettura.

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Sono figlio di una lavandaia analfabeta e di un venditore di pop corn semianalfabeta, anch’io venditore di pop corn, barista, commesso in una merceria, operaio tessile, tornitore meccanico, gestore di un piccolo ristorante. Il mio destino è cambiato grazie al contatto, per quanto fortuito, con i libri.

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Ruffato, forte di un’approfondita conoscenza della realtà del suo Paese, nel suo appassionato intervento, come ospite d’onore alla Fiera del libro di Francoforte, ha evidenziato come l’espressione “capitalismo selvaggio” per il Brasile decisamente non è una metafora.

“le frontiere sono cadute per le merci, non per il movimento delle persone”.

 E ha ripercorso  le tappe della colonizzazione che vide sparire circa 3 milioni di indigeni sotto il segno del genocidio.

Durissimo il suo giudizio sul concetto di assimilazione delle popolazioni autoctone, che smonta tacciandolo di eufemismo, buono solo

“..a nascondere un fatto indiscutibile: se la nostra popolazione è meticcia, si deve all’incrocio di uomini europei con donne indigene o africane, ossia l’assimilazione è avvenuta attraverso lo stupro di donne indigene e nere a opera dei colonizzatori bianchi.”

Sottolinea che anche dopo il 1888, quando fu abolita la schiavitù, le condizioni  degli afrodiscendenti continuarono ad essere pessime e precarie.

“Invisibile, umiliata da bassi salari e privata delle prerogative minime di cittadinanza – alloggio, mezzi di trasporto, svaghi, istruzione e sistema sanitario di qualità – la maggior parte dei brasiliani è sempre stata considerata insignificante nell’ingranaggio che muove l’economia:

il 75 per cento di tutta la ricchezza si trova nelle mani del 10 per cento della popolazione bianca e appena 46mila persone possiedono metà delle terre del paese.

Storicamente abituati ad avere solo obblighi e mai diritti, ci siamo rassegnati a una strana sensazione di

non appartenenza: in Brasile ciò che è di tutti non è di nessuno“.

Ha registra amaramente il diffuso senso di impunità, visto che

la galera funziona solo per chi non ha soldi per pagarsi dei buoni avvocati, e l’intolleranza affiora.

In Brasile ci sono venti omicidi ogni centomila abitanti, il che equivale a 37mila persone uccise ogni anno, un numero tre volte superiore alla media mondiale.

I più esposti alla violenza non sono i ricchi – che si sono rinchiusi dietro alte mura in residence di lusso, protetti da barriere elettrificate, sorveglianti privati e vigilanza elettronica – ma i poveri confinati nelle favelas e in quartieri periferici, alla mercé dei narcotrafficanti e dei poliziotti corrotti”.

Orribile diffusione del maschilismo con il tragico saldo nell’ultimo decennio  di

45mila donne assassinate.

I maltrattamenti contro l’infanzia non si contano e rispetto alla parità di genere vige un atteggiamento schizofrenico che vuole da un lato l’avenida Paulista a São Paulo, accogliere la più grande parata gay del mondo, ma anche  il maggior numero di attacchi omofobi della città.

Come dappertutto la carenza del sistema educativo, Scuola in testa, mantiene e perpetua le differenze di classe.

“Eppure, siamo progrediti”

è la riflessione conclusiva dello Scrittore grazie al

ristabilimento della democrazia.

“Sono 28 anni consecutivi. Con la stabilità politica ed economica seguita alla dittatura militare abbiamo accumulato delle conquiste sociali. La più significativa, senza dubbio, è stata la diminuzione della miseria: 42 milioni di persone è asceso socialmente nell’ultimo decennio. Innegabile è anche l’importanza dell’istituzione di meccanismi di ridistribuzione della ricchezza, come il programma Bolsa família, o di integrazione sociale come le quote razziali per l’accesso all’università pubblica.

Purtroppo, nonostante tutti gli sforzi, è immenso il peso dell’eredità di cinquecento anni di ingiustizie.

Siamo ancora un paese in cui il diritto alla casa, allo studio, alla salute, alla cultura e allo svago non è per tutti, ma il privilegio di alcuni.

Siamo un paese paradossale.

Il Brasile è una terra esotica, dalle spiagge paradisiache, dalle foreste edeniche, il paese del carnevale, della capoeira, del calcio.

Ma è anche un luogo pieno di violenza urbana, di sfruttamento della prostituzione infantile, di violazione dei diritti umani e disprezzo per la natura.

Ora siamo la settima economia del pianeta. E rimaniamo al terzo posto per disuguaglianze sociali.

Torno, allora, alla domanda iniziale: cosa vuol dire abitare in questa terra situata alla periferia del mondo, scrivere in portoghese per lettori quasi inesistenti, lottare ogni giorno per costruire, in mezzo alle avversità, un senso da dare alla vita?

Io credo, forse ingenuamente, nella forza trasformatrice della letteratura.

Sono figlio di una lavandaia analfabeta e di un venditore di pop corn semianalfabeta, anch’io venditore di pop corn, barista, commesso in una merceria, operaio tessile, tornitore meccanico, gestore di un piccolo ristorante. Il mio destino è cambiato grazie al contatto, per quanto fortuito, con i libri.

Per contrappormi a tutto questo scrivo: voglio colpire il lettore, modificarlo, trasformare il mondo.

È un’utopia, lo so, ma io mi nutro di utopie.

Perché penso che il destino finale di ogni essere umano dovrebbe essere questo:

raggiungere la felicità sulla Terra. Qui e ora.”

http://www.internazionale.it/news/brasile/2013/10/16/un-paese-paradossale/

(Traduzione dal portoghese di Osvaldo Esposito)

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