L’articolo ben documentato e finemente introspettivo di Concita De Gregorio su Frida Kahlo scatena il bilioso commento di Fulvio Abbate sulla sua pagina FB
Con insindacabile imperiosità boccia recensione e recensita
” un’apoteosi di luoghi comuni e di banalità per un’artista oggettivamente minore,
folclore femminista etnico-letterario “
Per motivi che sfuggono ai più, Abbate fin dai tempi dell’Unità ce l’ha su con Concita
Ma anche con Frida.
Meglio, nella sua forbita prosa, Carmelina di Capri
“Le colpe dei recensori non ricadano sui recensiti”
commenta sornione Pablo Echaurren, tentando di svelenire il clima della
livorosa conversazione
Niente da fare, seguono i cachinni e l’incontinenza verbale dei follwers, assurti a fini intenditori d’arte e dintorni,
in aperta controtendenza con Breton e, per dire, Picasso
Zoppa brutta e baffuta appare loro, sebben inopinatamente amata da Intellettuali e Artisti, immortalata sulle più patinate copertine fashion, interprete di un femminismo di là da venire, insofferente di differenze di genere di età, animatrice delle più esclusive cerchie artistiche del tempo, ambasciatrice orgogliosa della sua Cultura,
Imperdonabile, davvero
Concita De Gregorio da La Repubblica 19 marzo 2014
“Il giorno dell’incidente che le frattura la spina dorsale Frida Kahlo ha 18 anni, sta tornando a casa da scuola. Studia per diventare medico.
Dal bacino alle spalle, il suo corpo si apre. Rischia di morire. La operano molte volte. Soffre dolore non dicibili.
Uno dei primi quadri che si presenta, frontale, alla vista del pubblico nella straordinaria mostra delle Scuderie del Quirinale è stato dipinto pochissimi mesi dopo quell’incidente. Frida adesso ha 19 anni, è immobilizzata a letto, due argani le tirano il collo e le gambe. Può muovere solo le mani.
Può vedere solo se stessa, in uno specchio sul soffitto. Non ha mai frequentato scuole di pittura. Si dipinge per mostrarsi ad Alejandro, il suo ragazzo.
Come si manda una lettera, come oggi si scriverebbe un messaggio su Facebook. Lui era insieme a lei quel giorno sull’autobus: dopo l’incidente la famiglia, spaventata forse dalla prospettiva che il giovane si sentisse in dovere di sostenere le conseguenze della tragedia, lo ha mandato a studiare in Europa.
Frida vuole che torni. Gli chiede, col suo dipinto: torna. S’intitola Autoritratto con vestito di velluto. Il vestito è una veste da camera color rubino, la indossa sul corpo nudo. Si raffigura come una Venere del Botticelli, nasce dalle acque. Le acque, però, sono scure. Il cielo è nero. Una notte da cui Frida emerge, magnifica e non ferita, intatta. La pelle bianca le labbra rosse come il velluto.
Il risvolto della veste ha un disegno di simboli che chiamano l’amore della carne: fiori aperti, triangoli del giardino di Venere. È l’invito erotico più esplicito che si sia mai letto nel non detto di un ritratto. Nasce da un letto di dolore, a un passo dalla morte. È il punto esatto in cui Eros e Morte si stringono nella stessa posa, fanno posto all’invitato.
Lei ha, ripetiamolo, 19 anni.
In tanti si chiedono, ancora, come mai Frida Kahlo, pittrice messicana morta probabilmente suicida a 47 anni nel 1954, sessant’anni fa, sia diventata una celebrità globale amata– soprattutto dalle donne – oltre la sua stessa arte: icona pop da magliette e magneti sul frigo, chiamata senza bisogno di cognome come il Che, Frida, solo Frida, biografie e romanzi e fumetti e kolossal al cinema.
La donna coi baffi, la donna con le sopracciglia come ali di corvo, la donna che sanguina, la donna che non partorisce, la donna che ama e da chiunque è amata, la donna straziata nel corpo e vestita di fiori, la donna che non muore. Perché lei, e non un’altra. Non Tina Modotti, Chavela Vargas, Dora Maar, nessun’altra delle donne pure straordinarie che hanno incrociato la sua vita e il suo tempo.
Perché di Frida, si chiede anche la curatrice della mostra Helga Prignitz-Poda (autrice della “bibbia” su Frida, il catalogo ragionato della sua opera che inspiegabilmente Rizzoli ha giusto ora esaurito) perché di lei si deve sempre raccontare la vita insieme all’arte, prima dell’arte.
Come mai la sua biografia è quel che tutti vogliono conoscere e in qualche modo possedere, assai più – per molto tempo almeno – delle sue opere, alcune delle quali in passato, quotatissime, sono rimaste invendute alle aste.
Perché la vita di Frida è essa stessa un’opera d’arte, si potrebbe facilmente rispondere. Perché non era affatto una pittrice surrealista: si limitava – ha molte volte detto e scritto – a dipingere ciò che vedeva. La sua realtà, non i suoi sogni.
Quando affianca due orologi non intende come Dalí esprimere l’idea del tempo: vuole solo indicare materialmente, attraverso le lancette dei due orologi, il tempo che la separa dall’ultima volta con Diego.
La realtà, un dipinto murale della sua vera vita. Perché aveva avuto la poliomielite a sette anni, il corpo spezzato da un incidente a 18 ed eccola, capace di trasformare in forza il dolore, di amare al di là e oltre i generi le età le convenienze e le occasioni: uomini e donne, vecchi e bambini.
Ha amato, riamata, gli uomini e le donne più desiderabili – per eleganza, per fama, per coraggio, per talento – dei suoi anni. Trockij, Chavela Vargas, il fotografo Nicky Muray che l’ha ritratta sulla panchina bianca come una regina azteca, Breton probabilmente, la giovane ereditiera americana, decine di altri e di altre e poi Diego naturalmente, il secondo “incidente grave” della sua vita, come diceva: Diego Rivera.
Diego era molto più vecchio, più celebre e celebrato di lei ma l’arte di Frida era più forte, più fonda, più luminosa. Nasceva dalle divinità come Ometeotl, che è uomo e donna, nascita e morte insieme.
Come Coatlique, che veste di serpenti e di cuori sanguinanti perché genera la vita e la divora. Come la Llorona, la donna che piange, Medea di Messico che uccide chi ha partorito.
«Ho provato ad annegare i miei dolori, ma hanno imparato a nuotare»,
scriveva sul diario.
Poi dipingeva se stessa che, nell’attesa dell’amore, mette radici. Come Shiva. Come gli dei che non hanno bisogno di partorire per generare. Giacché non poteva partorire, ha generato la sua arte e se stessa nell’arte.
La mostra di Roma (fino al 31 agosto alle Scuderie del Quirinale) è spettacolare per molte ragioni. I cultori di Frida troveranno due opere mai esposte prima in assoluto, una mai vista in Italia, dieci magnifiche foto inedite di Leo Matiz, conosceranno la storia sinora ignota della Signora in bianco, da pochissimo identificata in Doroty Brown Fox, una delle prime amanti di Frida.
Sono quasi tutte opere di collezioni private, oltre quaranta tele. Vedranno ritratta in foto la tela scomparsa in Russia, La tavola ferita: un dipinto su legno di due metri di lunghezza che Frida regalò alla città di Mosca nel ’48, esposto a Varsavia nel ’52, rientrato a Mosca – testimoniano le carte – e mai più ricomparso. Chissà se qualche ambasciata, qualche ministero di Cultura vorrà avanzare richiesta per sapere dove si trovi. È il dipinto in cui Frida, come in un’Ultima Cena, mette in scena se stessa nel teatro del suicidio.
Chi non conosce l’opera di questa straordinaria interprete del Novecento troverà una rassegna di capolavori a partire dall’Autoritratto con collana di spine e colibrì, passando per Diego nei miei pensieri fino all’Autoritratto con scimmie. Chi colleziona aneddoti della sua vita la vedrà in foto mentre beve birra dalla bottiglia, distesa al sole su un prato, sorridente come davvero di rado è stata ritratta.
Dora Maar la fotografa accanto a un piccolo uccello di terracotta, Picasso del resto le aveva dedicato un’antica canzone spagnola che parla di uccelli e
poi aveva chiamato Dora “la donna che piange”, la Llorona.
L’Europa, nel Novecento, è già piena di lei.
Si è chiusa a marzo, a Parigi, una mostra per bambini al Centre Pompidou intitolata Frida et moi.
Un laboratorio per i piccoli di quelli in cui si disegna e si scrive. «Frida ha iniziato a dipingere a 19 anni dopo un incidente. E tu? Ti sei mai fatto male? Come passi il tempo quando sei malato?». «Frida amava Diego, insieme collezionavano piccoli oggetti d’arte popolare e si occupavano di politica. E tu? Quali sono le cose che ti stanno a cuore?». Frida è la malattia e la cura.
La grande madre infertile. La terapia del suo stesso male. La vita che diventa arte, l’amore che diventa morte e al contrario, l’ombra senza la quale non c’è luce.
«Aspetto felice la partenza, spero di non tornare mai più»,
ha scritto nella sua ultima pagina di diario prima di disegnare un angelo ferito con le ali verdi che sale in cielo. Non è tornata, in effetti.
Dev’essere perché non è mai partita: gli angeli non sono verdi, i bambini lo sanno. Frida è nascosta centenaria, da qualche parte, dentro ogni essere umano che sanguina ferito e non piange.”