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Michela Murgia, special guest su Smemoranda 2014.

2013/10/05 - Attualità, Discussioni di: MG Colombo
Michela Murgia, special guest su Smemoranda 2014.

Gino & Michele, forti di 24 anni di convinti calorosi consensi tra scolari e filosofi, propongono nell’edizione 2014 di Smemoranda, imperdibili brani di Enrico Brizzi, Rossana Campo, Guido Catalano, Cristiano Cavina, Sandrone Dazieri, Paola Mastracola, Raul Montanari, Paolo Nori, Aldo Nove,Tiziano Scarpa e, per la quarta volta, Michela Murgia.

Metteteci anche tre poesie inedite di Francis Scott Fitzgerald, pubblicate in collaborazione con la rivista letteraria Satisfiction, e smemorandatevi anche quest’anno.

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Vanityfair.it  pubblica in anteprima il racconto di Michela Murgia a proposito di pecore, padri, figli, ambizioni, libero arbitrio, memoria, nostalgie e tanto altro.

I figli delle pecore

“L’avresti detto mai, o Babbo, che sarei diventato quello che sono?

Secondo me no, e a vedermi oggi ci saresti anche rimasto male. Tu del resto avevi già le idee decise per me: non ero nemmeno nato che già mettevi da parte i soldi per mandarmi a scuola e farmi studiare tanto, bene e proficuamente, come Gramsci, come Asproni, come studia la gente ricca, che fa i figli dottori e le figlie professoresse in faccia all’invidia del paese e al destino rigido dei figli dei pastori.

Non te ne importava niente se gli altri bambini portavano i pantaloni corti fino a dodici anni e andavano in giro senza le scarpe per tutta la settimana; tu a me a nove anni facevi già mettere i calzoni lunghi dei grandi, di velluto a righe e stretti in fondo, anche se costavano di più, e gli scarponcini di pelle dura con i lacci stretti e neri.

Mamma diceva «che li compri a fare, che tra sei mesi nemmeno gli stanno più, che questi crescono come la gramigna!». Ma tu te ne fregavi e me li avevi fatti fare lo stesso i pantaloni su misura, come un grande. Mi ricordo ancora che una domenica avevi preteso che li mettessi anche se non dovevo uscire e avevi chiamato il fotografo da Oristano appositamente per farmi fotografare con quelli addosso.

Mi guardavi stare in piedi vicino alla sedia del salotto, quella dove in trent’anni si saranno sedute sei persone in tutto, per lo più testimoni di Geova e gente venuta a chiedere favori. Io lo so perché mi hai fatto prendere quella fotografia, Babbo: in piedi vicino al fotografo tu mi vedevi già seduto lì dietro una scrivania, un impiegato di concetto in pectore, una profezia del futuro che stavi scrivendo per me, dove a nove anni io ero già quello che avresti voluto che diventassi e avrei detto a tutti:

«Mio babbo faceva il pastore e ora guardate me, cosa sono diventato!»

Tuo figlio, certo, il figlio di un pastore. Ma anche uno “studiato”, uno che si guadagna il pane tenendo il culo appoggiato a uno scranno. Dottore, avvocato, ragioniere, geometra, comunque signore.

Non come te, con la schiena rotta dalla zappa all’oliveto e in vigna. Non come te, con la pelle rigata dal sole preso appresso al bestiame al monte.I tuoi vicini credevano che tu fossi scemo, babbo, e qualcuno qualche volta ha provato anche a dirtelo. Chi ha un figlio solo non lo manda a scuola, sennò a seguire il bestiame e il terreno chi ci resta? I vecchi muoiono, ma le pecore restano e qualcuno di casa per loro deve esserci.

Tu la conoscevi la storia e la conoscevo anche io, che non sono mai le pecore l’eredità dei figli, ma i figli l’eredità delle pecore: questa è la regola da sempre e guai a chi si crede l’eccezione. Non ho mai capito il perché tu avessi deciso che l’eccezione dovessi essere io.

Non hai mai letto un libro in vita tua, Babbo, e certo non eri un uomo che avesse mai desiderato essere più di quel che era.

Eppure per me hai voluto sognare l’impossibile: libri, banchi, maestri, diplomi, denaro e titoli, tutto quello che nella tua testa voleva dire rispetto, rispetto vero. «Le vigne le incendiano, le pecore le rubano, se hai suscitato invidia te le sgarrettano, ma un dottore è dottore comunque.» Questo credevi e questo ho voluto credere anche io davanti ai tuoi occhi fiduciosi di me.

Per anni ce l’ho messa tutta, Babbo. Per anni non ti ho detto mai niente e del resto che senso avrebbe avuto?

Le tue orecchie non mi hanno ascoltato mai.

Tu avevi già deciso tutto ed era un’offerta così ricca, così onerosa per te, che nessun altro figlio avrebbe rifiutato quella generosità non richiesta.

Chi è il matto che preferisce la terra alla penna? Chi lo scemo che vuole alzarsi alle quattro a mungere quando può stare a letto ad aspettare che il mondo gli vada a casa a dirgli che ha necessità di lui?

Io certo non ero matto e tu non volevi che fossi nemmeno scemo, così ho studiato e sono stato zitto. A volte fuggivo in campagna e buttato sull’erba a faccia in giù nella terra piangevo di nascosto annusando l’erba e i suoi vermi.

Pensavo che era terribile essere il tuo unico investimento, la cartuccia unica del tuo fucile d’anziano. Avessi almeno avuto un fratello addosso a cui scaricare quella tua ansia di vedermi signore! Invece c’ero solo io, un acrobata senza rete che camminava sul filo dei sogni di un altro. Mamma l’aveva capito che non volevo studiare, ma lei era l’unica persona al mondo che ti temeva più di me e così stemmo zitti in due.

Ho studiato, Babbo, proprio come volevi.

Tu mungevi le pecore alle quattro di notte, tu tosavi ciuffo per ciuffo aiutato dai figli dei vicini e mentre facevi il formaggio andavi dicendo a loro che tuo figlio studiava da avvocato; ti prendevano per matto, Babbo, perché è una ricchezza che non tintinna in tasca quella della conoscenza appresa a scuola.

Per qualche motivo misterioso tu avevi capito ed eri convinto che ci fosse qualcosa di più da vedere, ma nessuno dei tuoi vicini poteva fare altrettanto,perché è gente che la distanza tra un povero e un ricco l’ha sempre misurata in pecore.

E mentre tu dividevi la vita degli animali e progettavi la mia, io intanto stavo a Cagliari con la testa china sui libri di diritto civile e penale. L’ho fatto per anni, tutti quelli che servivano. L’ho fatto con fatica e senza lamentarmi, andando davanti ai professori senza alcun odore di bestiame, come se non fosse stato il latte a pagare i miei libri, come se non fosse stato il formaggio a mettere insieme l’affitto e i vestiti cittadini che mi mettevo per far dimenticare chi ero.

Alla fine sono diventato avvocato davvero, Babbo, e quel giorno avrei voluto dirti che avevi ragione tu, che studiare serve davvero, anche se non a quello che credevi tu. Ma quando sono stato pronto a dirtelo tu non c’eri più da un anno e mezzo. C’era solo mamma quando io mi sono laureato. Nel sonno te ne eri andato,forse sognando il giorno in cui mi avresti visto dottore senza sapere che quel giorno per te non sarebbe arrivato mai.

Mi manchi, Babbo, ed è un peccato che me ne accorga solo adesso, ma la vita a volte ti fa scherzi brutti.

Lo pensavo l’altro giorno camminando verso il monte con il gregge che mi seguiva lento.

Mi sono guardato indietro e ho visto tutto il paese che dormiva mentre il sole ancora non era sorto. Ho aspettato gli agnelli con le zampe ancora delicate, ho fischiato le pecore pigre, ho spronato i cani e ho visto che un’anziana ha una zampa rotta e non ce la fa più. A valle non la riporterò, tanto la primavera sta per arrivare.

So che gli altri pastori ridono di me quando passo e pensano: hai visto il figlio di Bissenti che bella fine ha fatto, laureato in legge per finire appresso alle bestie!

So che pensano che la tua vita di fatiche io l’ho sprecata andando a fare proprio l’unica cosa che tu avresti sperato che io non facessi.

Mi volevi migliore di loro e invece i loro occhi non vedono altro che uno che gli somiglia, vestito come loro, ricco solo della salute sua e del bestiame che gliela consuma. Non mi invidiano e non mi temono come quando eravamo piccoli e credevano che tu stessi comprando per me la follia di un futuro diverso dal loro;

oggi mi vedono uguale,una scommessa persa che su di loro nessuno ha voluto fare e qualcuno il sabato davanti a una birra mi chiama persino suo amico. Ma invece avevi ragione tu, Babbo: migliore di loro lo sono diventato davvero, talmente migliore che non mi serve neanche più che vedano la differenza.

Non conoscono il mondo,i figli dei padroni delle pecore.

Non sanno che chi ha imparato a riconoscere il confine silenzioso tra la giustizia e la legge conosce anche la distanza che c’è tra gli uomini e quello che li determina.

Così sorridono di me al bar e io faccio finta di non vedere i loro denti, perché non hanno scienza né coscienza e la vita che fanno è già una condanna sufficiente per il reato di essere nati. La genìa dei tuoi amici non ha colpe, in fondo fa l’unica cosa che le hanno insegnato i suoi padri ed è per questo che sta appresso alle pecore. Io non sono mai stato come loro, Babbo.

Io faccio l’unica cosa che volevo fare ed è questo, non le pecore, che fa di me un pastore.”

http://www.vanityfair.it/show/libri/13/10/02/smemoranda-2014-racconto-michela-murgia-anteprima?utm_source=twitter&utm_medium=marketing&utm_campaign=vanityfair

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