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Marco Peano su L’invenzione della madre

2015/12/08 - Attualità, Letteratura di: MG Colombo
Marco Peano su L’invenzione della madre

Riportiamo l’articolo pubblicato pubblicato sabato, 5 dicembre 2015, su minima&moralia e condividiamo l’invito a votarlo come Libro dell’Anno per la trasmissione Fahrenheit (Radio 3): lo si può votare fino al 7 dicembre con una mail a fahre@rai.it.

Dizionari, gatti, enciclopedie

Di solito, finché non c’è qualcuno che glielo dice in maniera esplicita, una persona ignora di essere un caregiver. O perlomeno, mio padre e io lo ignoravamo. Anche perché – prima che il cancro facesse irruzione nella nostra quotidianità tramite il corpo di mia madre – non avevamo idea di cosa significasse quella parola.

Eppure di termini nuovi era fatta la realtà che ci circondava, e sempre più lo sarebbe stata: io però li andavo scoprendo soltanto nel momento in cui entravano in relazione con la malattia di mia madre.

Quando le venne diagnosticato un cancro al seno destro era il 1996: lei aveva quarantacinque anni, io diciassette; lei lavorava all’ufficio postale, io frequentavo il liceo; lei aveva ben chiaro il suo quadro clinico, io ero un po’ confuso su cosa fosse un «carcinoma mammario».

All’epoca sul pc di casa non avevamo internet, Google non esisteva ancora. Se avessi avuto a disposizione una connessione sarei andato a cercare informazioni in rete: mi divertiva il fatto che i due motori di ricerca più diffusi in Italia si chiamassero come il personaggio di un mito – Arianna – e con il nome di un poeta – Virgilio. Dovetti invece accontentarmi di sfogliare una più prosaica enciclopedia medica, dalla quale ricavai una serie di dati e di percentuali che non dissipavano troppo la nebbia.

Pochi mesi prima di quella diagnosi avevamo accolto un gattino dal pelo rosso incendio, a cui avevo dato il nome di Socrate. L’animale, capitato nella nostra famiglia quasi per caso, avrebbe tenuto compagnia a mio padre e a me durante la degenza ospedaliera della donna che entrambi amavamo di più al mondo.

Si susseguirono nell’ordine: una mastectomia, due cicli di chemioterapia, una convalescenza tutto sommato abbastanza breve. Dopodiché, mia madre riprese a lavorare. Non prima però di aver deciso di sottoporsi allo svuotamento dell’altra mammella, la sinistra, per motivi precauzionali.

Tutto torna sui binari della normalità, io mi diplomo, il gatto cresce, ma soprattutto mia madre sta bene. Finché nel 2002 il cancro si ripresenta: questa volta la zona interessata è il cervelletto; i medici parlano di «neoplasia cerebellare», e io che credevo di sapere tutte le parole del cancro scopro invece quanto ho da apprendere. Dunque si riparte: risonanze magnetiche, ipotesi di intervento e di possibili danni permanenti, speranze che oscillano, dubbi che tormentano, asportazione della massa senza complicazioni, radioterapia, e poi la vita che ancora una volta ha la meglio.

È proprio durante le sedute di radioterapia che inizio, più o meno consapevolmente, a riflettere sul mio ruolo di accompagnatore. Prima di essere un figlio, il figlio di mia madre, sono la persona che conduce l’automobile. Mio padre lavora fino a sera tardi, e anche se prendesse un permesso so quanto gli costerebbe frequentare gli ospedali, dunque gli evito volentieri di farlo. In ogni caso, adesso che ho ventitré anni voglio dimostrarmi adulto e consapevole – dunque è con piacere che mi prendo carico di questo genere di incombenze.

Guido dal paese di provincia in cui abitiamo fino alla città dove c’è l’ospedale, e sto in sala d’attesa stringendo la mano di mia madre finché non chiamano il suo nome. Mentre si sottopone alla terapia io penso al suo corpo irradiato, e mi rendo conto che quello che sta succedendo dentro di lei è una potentissima narrazione. Una narrazione che prima o poi affronterò, ma adesso – ora che sono seduto in sala d’attesa, e mi guardo intorno vedendo altri figli, mogli, fratelli e amici che come me hanno accompagnato un proprio caro – ignoro che dovranno passare tredici anni prima che quella storia diventi un libro.

Perché di lì a meno di due anni mia madre si ammalerà per l’ultima volta. «Carcinosi meningea», ecco le due parole che mai avrei voluto imparare. È una patologia fulminante, inoperabile, dicono i medici, ed è così che una sera – mentre do da mangiare a Socrate – capisco improvvisamente che il gatto le sopravviverà.

Il giorno in cui decisi di provare a raccontare questa piccola parabola umana, il primo tentativo concreto di mettere nero su bianco, fu il 29 aprile 2005. Lei aveva cinquantaquattro anni, ed era inferma; mancavano meno di nove mesi alla sua morte.

Mio padre e io – aiutati dal supporto medico e affettivo di una onlus – avevamo predisposto in un’area della casa tutta una serie di accorgimenti perché potesse stare con noi, vegliata giorno e notte, per quell’ultimo tratto di vita in comune. Ci alternavamo nel dormirle accanto, eravamo diventati due infermieri servizievoli e attenti. Intanto mio padre era andato in pensione, io ancora non avevo un lavoro stabile, e il tempo che ci era stato regalato per poter parlare con lei – sarebbe rimasta lucida ancora per poco, prima che le sempre più massicce dosi di morfina la costringessero a un oblio farmacologico – è stato senza dubbio il più intenso della mia vita.

So per certo che fu il 29 aprile la data in cui tutto cambiò perché conservo ancora nell’hard disk del computer il primo file che gettò il seme di quello che sarebbe stato il mio romanzo. Si tratta di poche righe, in cui provo a descrivere il modo in cui mia madre, bloccata a letto, sonnecchia davanti alla televisione.

Sarebbe trascorso un ulteriore anno e mezzo prima che io iniziassi a scrivere sul serio di lei. E tutt’ora non ho smesso, e forse non smetterò mai.

Faticai non poco a comprendere che, sebbene stessi inventando dei fatti a partire dalla realtà, non stavo tradendo il suo ricordo, ma anzi lo stavo fissando per sempre. Era doloroso eppure necessario ripescare nella memoria i ricordi personali e intimi, trasformarli in materia narrativa, costruire una trama, dei personaggi, dei dialoghi. Stavo facendo di una testimonianza privata, in fondo banalmente quotidiana nella sua tragicità, una storia che potesse arrivare a più persone possibili.

Nei sette anni che mi sono occorsi per dare forma al mio romanzo – cancellando e riscrivendo in maniera ossessiva – molti altri lutti si sono susseguiti, compreso quello del gatto. Il mio esercizio quotidiano è stato quello di rimanere con l’immaginazione ben piantato in quella stanza, accanto a lei. Accettando il fatto che mia madre non c’era più, e sapendo al contempo che quello che era accaduto nessuno me l’avrebbe mai portato via.

Mio padre e io, ciascuno a proprio modo, siamo stati entrambi inconsapevoli caregiver – ma questo ce l’hanno detto soltanto dopo.

Quello che invece ho capito scrivendo, una pagina via l’altra, è che il corpo di mia madre era il dizionario di carne e sangue che conteneva già, fin dall’inizio, tutte quelle parole.

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