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Settembre, tempo di connari e memorie

2018/08/31 - Attualità, Letteratura, Luoghi di: MG Colombo
Settembre, tempo di connari e memorie

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“Dopo i temporali di fine agosto, quella che viene detta la rottura dei tempi, spesso da noi, all’inizio di settembre, si presenta una nuova fase di calme. Quando ero bambino non si parlava di anticiclone delle Azzorre né del suo insediarsi nel Mediterraneo. Tutti però attendevamo una parentesi di bel tempo, che quasi mai deludeva le aspettative.

Allora, in tempi per le nostre comunità premoderni, le pratiche di pesca, come quelle agricole, seguivano il ritmo delle stagioni.  Così, a settembre, veniva il periodo della pesca dei connari, i piccoli pesci argentei che , in  grandi branchi, si muovono in quel periodo vicino alle spiagge.

I pescatori, quasi tutti di origine ponzese, trascorrevano una vita grama, legati all’alea del tempo, del vento, delle burrasche.  Era perciò d’obbligo sfruttare le opportunità date da quella parentesi di calme per calare la sciabica nell’insenatura di Rena Bianca e arrangiarsi con la pesca dei connari.

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Nel pomeriggio, con una barca a remi, stendevano in mare la rete cercando di chiudere la cala, in modo che la sciabica, strisciando sul fondo, non consentisse  vie di fuga. La pesca vera e propria si svolgeva all’imbrunire, quando venivano portate a terra le cime   legate ai due estremi della rete.  Si iniziava in quel momento a salpare, a tirare a terra, convergendo verso il centro della spiaggia. I pescatori si dividevano, quattro o cinque su una cima, altrettanti sull’altra, a trascinare la grande rete a strascico in fondo alla quale era collocato il sacco destinato alla cattura.

Apparivano marcati dal loro mestiere, anche nel fisico. Muscolosi per il lungo esercizio del mollare e tirare le cime e del remare, i visi scuri segnati dai solchi impressi dal sole, dal vento, dal salmastro. Il più anziano dirigeva la pesca  con calma e determinazione, mentre i marinai, soprattutto i più giovani, mettevano sulle cime tutta la loro energia, potenziata dalla speranza di un buon risultato.

La trazione avveniva con un movimento continuo, senza strappi, prodotta  da lunghe bracciate al termine di ciascuna delle quali tutto il corpo si distendeva all’indietro. C’era ritmo nell’azione dell’una e dell’altra cima che veniva recuperata, una bracciata dopo l’altra. La voce del capopesca sollecitava il ritmo, lo calmava, invitava a stringere lo spazio fra i due terminali.

Il ritmo sembrava importante, come un ottimizzatore di energia, come il regolatore degli sforzi. La cadenza ripetuta sembrava provenire da un tempo lontano, che fosse lì, depositata fra mare e terra, pronta ad essere raccolta da chi ripeteva la fatica e il rito.

La voce del capo manifestava attenzione, ma anche la pazienza di chi aveva consuetudine lontana con ogni tipo di pesca costiera e, allo stesso tempo, la consapevolezza della ripetitività di gesti e di fatiche. Ineliminabili, come per un destino segnato. Io, ragazzino, facevo parte del codazzo di chi assisteva e solo raramente mi era consentito aggiungere le mie deboli braccia alla nerboruta energia dei pescatori.

Anche le donne partecipavano dell’operazione, perché la spiaggia distava qualche centinaio di metri dalle loro case. Stavano lì, a predisporre le ceste, a ordinare i mestieri, ansiose del risultato della calata. Ogni atto compiuto, ogni tentativo di pesca, come ciascun atto preparatorio, erano i preliminari di un continuo corpo a corpo fra uomini e natura. Intanto per cogliere la parentesi di tempo favorevole.

Poi perché sembrava che il mondo biologico opponesse resistenza al prelievo di pesce, in fin dei conti anch’esso parte dei meccanismi di sopravvivenza e riproduzione dei quali la nutrizione di quelle famiglie era un momento. Anche quando la pesca si faceva, come quella dei connari, quasi sulla soglia di casa, nulla si otteneva senza fatica e sudore.

C’era un momento nel quale, avvicinandosi la rete alla battigia, molti pesci cominciavano a guizzare nello specchio d’acqua che andava riducendosi. In cerca di scampo.Poteva capitare, a quel punto, che qualche grosso pesce, ritornando a sera nella zona sabbiosa, incappasse nella rete. Un dentice, un’orata, raramente.

All’approssimarsi della rete a terra si intravvedeva il brulichio dei connari argentati vicini all’ imbocco del sacco, mentre molti altri, più grandi, si agitavano nell’esiguo spazio fra la rete e la riva. Non si potevano fare errori, a quel punto. Occorreva che il sacco strisciasse ancora sul fondo, mentre i lembi della sciabica dovevano restare ben tesi per catturare il possibile. Per ciò il pescatore più anziano dava ordini perentori ad alta voce, in quella sorta di linguaggio meticcio formato da ponzese, gallurese e terminologia della pesca.Finché , ormai al buio, alla luce di un falò, il sacco veniva all’asciutto e il contenuto suddiviso in alcune  ceste.

Poi si creava un piccolo corteo, di donne che  si affrettavano verso casa per predisporre  la cena frugale, di uomini che trasportavano i mestieri, di bambini che rumoreggiavano intorno alle ceste.  Il ciclo del giorno si andava chiudendo.”

Franco Mannoni

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