Schiacciato tra il cimitero di Eco, le correzioni di Franzen e un formidabile Auster, mi è capitato tra le mani Quando ci batteva forte il cuore, finalista Pre.mio Biblioteche Roma, di Zecchi.
Da un bel pezzo le foibe hanno cessato di essere solo fenomeni carsici e sono diventate emblema di uno degli orrori del secolo breve, su cui ancora si ha pudore di dire.
Zecchi le fa divenire anche un luogo letterario. Bene.
Su questo piano di giudizio mi sono venute le prime impressioni.
Lorenzo ha 6 anni nel ’43 e, con le antenne lunghe dei bambini, percepisce il disastro incombente sul suo mondo e le sue certezze.
Lorenzo ha 6 anni quando nella colpevole inconcludenza della classe politica, l’Istria passa alla Jugoslavia.
Il romanzo ha il pregio della scorrevolezza, soprattutto quando si abbandonano le velleitarie ahimè inconcludenti tirate della madre nella prima parte, che mi son parse stonate e didascaliche.
Al contrario nella seconda parte, sgomberato il terreno dal velleitarismo della madre, votata al suo destino di pasionaria, l’orrida vicenda storica si intreccia alla costruzione del rapporto padre-figlio, novelli disperati Ascanio-Anchise, senza numi tutelari, in fuga dalle rovine della patria.
La forza delle immagini è buona e pacata, i dialoghi sono a misura di bambino che vuol capire e di padre che non sa spiegare.
Molto neorealistico, sotto gli occhi di una natura leopardianamente indifferente e di una classe politica vigliaccamente inetta.